Febbraio 2022

 

Si sta consumando in fretta questo tempo
il ciliegio cresce e si alza, riempie il suo spazio
di campo di terra, e intorno dondolano i rami
delle querce antiche, stormi di poiane
che non infondono coraggio invece, le serpi stanno
dentro ai buchi della terra adesso, il terreno è secco
le righe storte del confine curvano il flusso della pioggia
una rete che non chiude, la pendenza verso il fiume.
E allora, come spesso dico, conto le sfumature
tra ruggini e schiarite raccolgo quarti di cielo dalle pozze
– cerchi d’acqua – lasciate piene al mattino presto
m’incammino sulla stessa strada, quattro passi svelti
due torri, la chiesa, la gru che rimette in piedi la casa rotta,
dieci volte lo stesso giro nel tempo buono.
Lo sguardo sfinito per cercare il nuovo –
scaglie impercettibili – sullo spazio identico
da troppi anni. Soltanto i suoni a volte cambiano
tendi l’orecchio allenato al silenzio
Adesso c’è neve.
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[Febbraio 2022]
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[Foto del Maestro Michele Mobili che ringrazio, sempre.]

testo edito nella raccolta del concorso “L’arte in Versi”

Luoghi. E poi.

 

A volte mi fermo davanti allo specchio, guardo dentro gli occhi scavati per vedere se la riconosco un po’ quella cosa lì, quella luce che ha resistito a così tante cose e giorni e luoghi, il vetro mi restituisce solo gli ultimi anni stanchi, cerchiati dal sonno, dalle delusioni che stanno macerando sul fondo del lavandino. Evaporeranno forse con l’acqua bollente in un momento buono, magari quello giusto.
Ogni giorno cerco quel movimento che fa la luce oltre il ciliegio selvatico, oggi la nebbia copre la metà di sopra ed il cielo è un blocco di cemento.
Chiudo l’ultima persiana, il buio è fitto e senza luci, c’è ancora nebbia. Guardo la stanza, l’asimmetria data dalla mia parte colma di libri, guardo gli altri libri appoggiati a terra, dovrei farmi fare una libreria, penso, c’è un vecchio cofanetto, un residuo dei traslochi, una metà della vita che sembra di qualcun altro.
Dovrei buttarle le cose vecchie mi dico, invece conservo tutto, perfino le mollettine luccicose a forma di farfalla di quando avevo i capelli lunghi. Ci sono le spille che mettevo sulla divisa da barman, un braccialetto rotto, due croci d’argento, un lapislazzuli, un  gettone. Mi ricorda le telefonate nelle cabine chiuse, i rumori lontani del bar, di quelli che giocavano a carte la domenica pomeriggio. L’odore della plastica, di aria rimasta chiusa, di chi c’era stato prima, un profumo che si incastrava nelle fessure e nel naso.
C’era, in quel gesto, nel gesto di andare per telefonare, un’ansia dell’attesa, la paura di una risposta mancata, la bellezza della voce.
Richiudo la scatola, rimetto l’ippopotamo morbido e grigio sopra a fare la guardia, scendo di sotto per accendermi una sigaretta.
Guardo la fiamma del camino, come fosse la pausa di una fine giornata, di una fine e basta magari, una contemplazione giornaliera di qualche pezzo, come ad esempio quel passato remoto in cui si faceva il giro delle mura d’inverno sui motorini, in due senza casco, con l’aria che tagliava la mezza faccia scoperta, il naso gelato dal freddo e quella stupida convinzione di far durare un per sempre.
Ho ritrovato soltanto un andarsene invece, la sfacciata verità del tempo quando ti cambia anno per anno anche la voce, la misura delle ore, dell’aria, questo rumore dei motorini quando se ne andavano via e tutto il resto con loro, insieme al chiasso che hanno sempre fatto le marmitte della Giannelli.
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Racconti brevi
#400parole

Foto del Maestro Michele Mobili

Non è così che passo i giorni

 

Questo racconto partecipa al concorso toast, organizzato dal Penelope Story Lab.

Te lo ricordi quando ascoltavamo i Police dentro alla tua auto? C’erano quelle canzoni in cui dovevamo per forza accenderci una sigaretta. Fumavo le Cartier, avevano il filtro bianco, lucido, tu le Gauloise rosse.
Mi insegnavi la meraviglia delle cose e lo credevo un giudizio universale, tutta la luce era abitabile, perfino di notte, ero in ascolto; tutta me era viva per musica e racconti del mondo che avevi già visto tu.
Poi, c’è stato l’ultimo viaggio, un lavoro muto, un ritorno in cui non c’eravamo più. Dovresti guardarmi adesso, non è così che passo i giorni, sai? Hai scalzato le mie strade, ora il loro silenzio è invadente, sono un essere inadeguato in ogni posto. Custodisco assenze da un po’ di tempo, infilo le mie logiche strappate in qualche incavo del corpo mentre penso, le Muratti blu non sono la stessa cosa accidenti, qualcuno deve dirglielo alla Philis Morris.
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Ottobre

 

Ottobre, sulla strada, infilza la notte tra i rami.
Giù in fondo, c’è un rosarancio che invento mentre penso, guarda com’è grande il nodo, riesco a vederlo adesso. Il disadattamento amplifica l’inciampo ragazzina, mi dico.
Ogni giorno contiene un buco, come un palloncino scoppiato, e per ogni scomparsa un laccio rimane vuoto, penzolante, sul davanzale.
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