Vav o Waw (sesta lettera)

È lì
nel centro
tutto ciò che ti salva.
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È tutto qui nella pancia, l’inizio.
Guarda, la congiunzione storta
ha dilatato i sostantivi, eppure
in questa verticalità forzata dev’esserci
una redenzione, mi dico. L’automatismo
sbagliato ha rotto il limite, la conta dei sassi,
lo spacco della terra. Adesso
si può ricominciare penso, adesso
conosco il nome di ogni taglio
il richiamo del silenzio a dirotto
lo sguardo dalla parte giusta.
Mi fermo ancora ogni cinque passi
il sesto sarà sempre nodo, l’inciampo
il segno incompleto alla caviglia –
quell’inchiostro sbiadito sulla pelle – ma
credo nella finitura della linea, tra
i frantumi di passi, l’ascolto che precipita
quest’anima di carta, la pelle sovraesposta.
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#alfabetoebraico

He

Uscire dalla pronuncia sottile
e capirne il ritorno.
La verità del tuo nome.
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He
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ancora silenzio
non esce dalla bocca chiusa il suono della rinascita
ancora silenzio.
Come coesiste un dio della guerra in un bosco incantato?
ancora silenzio.
I fantasmi, le ossa rotte, alberi nuovi e rocce cadute
strappano, gli urli dei lupi abbandonati nella selva adesso,
un luogo fermo senza strade, uno spazio chiuso dentro il suo rifiuto.
Soffia solo il vento su questi fiori tesi dal gelo che persiste
guardo ancora verso est perché marzo non perdona più
ciò che hai creduto numero perfetto ma non sapevi –
non siamo cinque con uno in più ma un due con lo scarto di quattro –
che non riesce a tornare intero, neppure dopo la fioritura.
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#lettereebraiche

Riflessioni

[i contenitori che avevo sono rimasti pieni di niente, cianfrusaglie impolverate dagli anni nelle fessure scurite.
C’era una magia lì fuori invece, o sembrava ci fosse mentre caricavo borse sul passeggino e camminavo a piedi e mi sorprendevo di quell’albero lì ma guarda le prime viole, i fiori, la montagna rigata dall’ultima neve. I muri, i ciottoli, gli odori dei vicoli, del forno, della strada, delle auto, di tutto un tempo sospeso sembrato di qualcun altro.
Oggi piove e sono due secoli. Il passeggino è in soffitta nello scatolone e per uscire prendo un’altra strada. Non è più lo stesso luogo, non sono più quella che credeva all’errore. C’è una sospensione di maldicenza, un’indifferenza stratificata che mi ha insegnato come chiudere la porta e la bocca.
Guardo spesso dalla parte opposta adesso, il ciliegio nudo ancora, senza l’innesto buono è lì anche lui in bilico sul ciglio della terra piena di sassi, devo imparare la direzione giusta, la luce vera. Mi dico comincia a respirare e smetti di contare.]
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Grazie a Sergio Daniele Donati che con le sue riflessioni ha ispirato le mie.

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Dalet

 

Imparo lo spazio bianco adesso, il silenzio
rispettoso verso il non detto, dicono.
Questa porta sempre aperta ha l’interno cavo
un passato remoto scritto male
il passo zoppo inciampato sulla vita.
Porto ancora addosso tutta la curvatura delle vertebre –
il mio bacino dall’asse sbieco, non tiene l’equilibrio –
imparo il silenzio adesso, questo niente
creduto peso, il carico enorme sulla schiena compromessa – eppure –
insegnarsi a camminare, diventare strada unica
la via folle rincorsa davvero, l’unica verità su cui credere alla luce.

Il falco

 

Uno spazio dimenticato questo, adesso, mentre si richiude nel cerchio della notte, nella stessa incisione da anni.
Un falco vola ogni giorno qui intorno, quasi in basso, tra il noce e le due querce sopra il fosso, mi percorre lo spazio abbandonato, incolto e mi dico guarda, questa bellezza inattuata è possibile forse, basta non continuare a chiudere gli occhi, ché a forza di chiuderli si diventa ciechi, dicono.
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#frammenti