Adlujé. (di Anna Maria Farabbi)
[Le mie interpretazioni sulle letture che rimangono dentro, sulle parole che ritrovo e riutilizzo per riempire continuamente vuoti a perdere – in questi momenti in cui continuo la ricerca del meridiano e dell’esattezza, questa corporeità che mi ha insegnato lei, Anna Maria, lavorare la vibrazione, prima che ti attraversi e arrivi in verticale.]
❤️
È un po’ così ovunque, nella vita, in tutti i luoghi. Dove ognuno va a caccia della propria povertà.
Quella interiore certo. Lo devo specificare? No, non serve. E allora?
Penso.
Sproloquio di parole, eccolo qui.
Gli uomini troppo figli per essere genitori sono segnati dall’avarizia sentimentale. Siamo consumati e scavati, il solco è una bugia quando diventa cieca.
[Mi devo allontanare, la mia natura è diseguale]
Mi sono distratta un attimo, il tempo di appoggiare la fiducia dentro la casa, mi sono trovata fuori dal branco. Ad ogni cena sono sempre l’ospite non gradito anche se non il tredicesimo invitato, ma comunque, l’indifferenza tutta intera mi scaraventa indietro. La sedia elettrica dei condannati è il mio posto in fondo, nell’angolo vicino alla finestra, con il sacrificio domenicale della finta unione.
[Mi devo allontanare, le cattiverie che ci vengono dette sono necessarie alla povertà intellettuale di chi le dice].
Le incisioni sul palmo sono due, due vite parallele in cui trovare il bastone che regge l’altra. Dov’è che devo cercarlo?
Tengo alte le difese, per non farle cadere, passo gli anni a curare e a proteggerci dal male.
Il battito è accelerato da tempo, troppo veloce per dirsi preghiera, o canto. E sono tutte strane queste parole mi dico, un temporale che sbrana buio e terra, rami e vento. Sto piantata come il ciliegio in bilico sulla terra di riporto, che piano piano, si fa largo intorno ma senza innesto rimane soltanto una gramigna inutile.
[Mi devo allontanare, l’inchiostro, cola giù da ogni parte fino alla cancellazione].
Quando una poesia è nuda sei tu che spogli le parole oppure tu che ti spogli mentre le dici?
Imperdonabili sono i tre volti che ho generato, dicono. Sono la strega che processa in silenzio nella notte ogni frase accartocciata negli anni. Ma che cosa fa una strega?
Non so inventare pozioni, non conosco la medicina, soltanto la causa delle malattie e non ho una cura. Sono danno, ricordi? Un peccato originale, la procreatrice non voluta, ladra di seme e occupante abusiva.
Non è un atto sacrificale il mio, l’accoglienza, che ancora dono, mi illude di cacciare indietro il veleno di cui il suo ombelico si nutre.
Qual è quindi la mia colpa? Forse proprio la parola, la mia, il mio essere testimoniante, essere vera, appartenere alla necessità della scrittura e quindi, per forza di cose, scomoda.
[Mi devo allontanare, ogni volta c’è lo strappo del filo, quell’equilibrio fragile che si spezza].