Ci sono quelle domeniche in cui da casa torni a casa, quella in cui prima di chiamare casa la tua di adesso, lo era davvero, da sempre, ancora.
Non cambiano, le cose, gli stessi sono i colori che poi tornano, insieme alle stagioni, insieme ai luoghi, insieme a chi del tempo ne ha fatto cornice, come le piante.
Da piccola giocavo tra il verde che mio nonno sapientemente curava, con Nino. Ci si nascondeva tra le foglie, si parlava, si ragionava e si rideva un sacco. Il mio amico immaginario sostituiva gli altri quando erano a casa a fare i compiti o semplicemente a guardare la tv. Io che ho sempre avuto bisogno dell’aria e delle sfumature del cielo, preferivo il fuori, senza le attese.
Il problema dell’avere immaginazione credo sia l’ingenuità che ne risiede alla base. La fiducia, che riponi in tutti è disarmante quanto l’accorgerti delle ferite che lasciano tutte le parole in cui avevi creduto senza porti il minimo dubbio.
Tutt’ora inciampo su parole dette e sul filo di un precario equilibrio poi una voce mi chiede:- ma ci credi ancora?
A volte, non la cerco nemmeno la risposta.
Voglio crederci nonostante i chissà, poco importa dell’amaro retrogusto, della miseria di quell’ottimismo forzato. Voglio continuare a pensare che non sia soltanto egoismo, magari timore, magari aridità, magari una maschera per coprire debolezze consapevoli.
Vorrei essere cinica, ma non ci riesco.
Sono ancora quella che si emoziona per un gesto o un bacio e che piange davanti a “Ghost”, quella che scrive, con la penna nera su quaderni a righe. Che cancella, poi riscrive la stessa cosa, perché mi piace sempre la prima e ricopio, in bella, perché come un disegno o una fotografia, per guardarla e respirarla, dev’essere pulita, che a tuffarcisi dentro poi, sono ancora io quando mi rileggo.
(Paragrafi)
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