Mentre la marmellata cuoce lenta, l’odore delle albicocche rende l’estate meno amara tra un temporale e l’altro. Mi tornano alla mente immagini di tanti anni fa, quando il caldo sembrava sempre diverso e io andavo in giro per lavoro, e c’era un luogo che non ricordo bene quale fosse ma che aveva un viale poco affollato, dove ognuno camminava svelto per andare o tornare nel punto in cui era partito con la stessa fretta probabilmente, tra i ciottoli grigi un po’ malmessi. Quasi tutte le vie laterali sbucavano senza nome, le seguivo per vedere il paese nelle sue ossa, le crepe, le porte, le case.
Un anziano signore in giacca, vestito bene e con tutti gli anni sulle spalle curve, attendeva i pochi passanti, increspando un sorriso in quei segni che rimangono sulla pelle, quei segni che la vita ti tatua addosso, quel detto in cui ciò che non ti uccide ti rende più forte, quando invece ti squarta, ti apre senza il resto, senza lasciarti nessun filo adatto per richiuderti e tu rimani lì, così esposto agli sguardi di tutti; accanto a lui due casse d’arance, una bilancia tarata male e il marciapiede sbeccato, morso dagli anni.
Mi saluta nel suo dialetto alzando un poco il cappello, ricambio con un sorriso e alzo la mano per salutarlo. Passo e mi viene da pensare chissà se è solo oppure ha qualcuno che lo aspetta, se ha una casa in ordine oppure vive tra le mura vecchie, consumate dalla salsedine che il portone gonfiato dal tempo non chiude più. Mi giro e torno da lui, compro due chili di arance. Mi dà il resto e la mano gli trema un po’; negli occhi vedo ancora la sua quotidiana resa verso ciò che gli è rimasto, essere ancora lì, forse privato di quello per cui è sopravvissuto tornando a casa ma onorando la promessa di non lasciarsi andare.
Riprendo a camminare e nel frattempo penso a mio nonno, la stessa tenacia che fa annullare ogni torto subìto, la stessa forza di chi, dopo la guerra, non ha più paura di vedere il male perché peggio della Russia è difficile, tornano indietro le immagini vecchie di me e lui, la sdraio di plastica arancione, il suo riposo la sera, i suoi calzoni marroni, gli occhiali quadrati, il suo silenzio pieno, il suo gatto bianco e nero, il suo cardigan scuro, la sua vespa chiara, il suo camminare lento, lui che c’era sempre a casa fino a quando la voce gli è andata via, fin quando ha aspettato quel giorno per l’ultima foto e poi basta. La vita l’aveva riempita, il contenitore era a posto e mentre tutti i suoi oggetti rimanevano lì, io cercavo di non lasciarlo andare via.
Lo rivedo ancora. Non ho dimenticato neanche il suo timbro di voce, gli direi che sono sempre la stessa, quella che ha bisogno di un gesto, il suo, che continuo a mangiare schifezze e mai agli orari giusti, che non ho ancora imparato a farmi piacere la frutta.
L’avremmo raccolta insieme però, la frutta, gli avrei fatto vedere le mie marmellate, mi avrebbe sorriso, lo avrei abbracciato perché da quando sono cresciuta avevo smesso di farlo.
Preparo i vasetti senza etichette adesso. Dopo settantacinque minuti ha finito di cuocere. Li metto in fila senza un ordine preciso. Fuori continua a piovere e le urla dei bambini mi rimangono tutte addosso nell’eco della casa.
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©LaScrittoressa
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[nella foto, mio nonno, oggi sarebbe stato il suo compleanno]